Erdogan si scrive Erdoğan. Sulla turcofobia dilagante

manifesto di propaganda russa risalente alla Grande Guerra: un turco fugge da un cosacco

Gli attacchi che i media italiani stanno rivolgendo alla Turchia, al di là dei tipici casi di “attivismo da salotto” (o come lo definiscono gli anglosassoni slackativism, “iniziative a supporto di una causa il cui unico scopo è aumentare l’autostima in chi le organizza”), hanno raggiunto un livello tale che non è più possibile giustificare con una (peraltro assolutamente legittima) avversione alle politiche -e alla persona- di Recep Tayyip Erdoğan.

In prima linea ci sono i filocurdi improvvisati, quelli che hanno creato l’ingannevole equazione “curdi = PKK” e l’ancor più falso “curdi = resistenza siriana”. I curdi che loro venerano, quelli ai primi posti nelle liste nere delle organizzazioni terroristiche di decine di Stati, non rappresentano che una percentuale minima dell’insieme delle forze che compongono il variegato (anche dal punto di vista etnico e linguistico) universo curdo, che a sua volta non è che una goccia nel mare della resistenza anti-Isis, sul fronte siriano guidata principalmente dall’esercito regolare, da Hezbollah e dai pasdaran (oltre che da molte altre minoranze – non meriterebbero anch’esse uno staterello per premio?).

In verità l’appoggio incondizionato ai curdi in sé non darebbe neppure fastidio, se non fosse condotto nel modo più ipocrita possibile, cioè facendo finta di ignorare che uno dei più importanti alleati del glorioso -e ipotetico- Kurdistan altri non è che… Israele! Sin dagli anni ’60 il Mossad ha infatti fornito supporto tecnico e militare alla minoranza curda dell’Iraq e negli ultimi anni la creazione di uno Stato curdo indipendente è entrato a pieno titolo nell’agenda della destra israeliana (assieme a un sostegno sempre meno indiretto e sempre più smaccato alle azioni del PKK).

Il paradosso è che mentre i sedicenti antisionisti con la bava alla bocca si raccontano storie assurde su un Kurdistan eco-femminista, pacifista e libertario, dall’altra parte c’è il “sultano” Erdoğan che rompe regolarmente i rapporti diplomatici con Israele per premere a favore dei palestinesi, ha patrocinato il tentativo di forzare il blocco di Gaza (già dimenticato la Mavi Marmara?), è stato l’unico Presidente di un Paese NATO ad accusare l’“entità sionista” di genocidio e ha provveduto a finanziare la ricostruzione di nove moschee di Gaza distrutte nell’ultimo conflitto. Ah già, ma questo è islamo-fascismo! Mentre i curdi che pongono le basi per il loro “sionismo” sono gli unici veri democratici del Medio Oriente.

A parte i soliti sinistronzi, adesso a giocare alla turcofobia ci si sono messi pure i camerati, che evidentemente campano ancora di Penisneid. Ormai qualsiasi occasione è buona per sputare veleno: l’Isis, la NATO, gli armeni, gli immigrati… Chi piagnucola troppo dovrebbe ricordare il proverbio: Chi pecora si fa, il lupo se la mangia (sempre sperando che questo lupo non sia grigio). A chi vorrebbe evitare di passare da ignorantone, consiglio di approfondire i rapporti tra Stato e “Chiesa” in Turchia, altrettanto complicati dei nostri: magari scoprirebbe che non è Erdoğan il vero ostacolo al riconoscimento del genocidio armeno, ma chi considera quel genocidio come atto fondante della nazione turca (ricordiamo anche che l’esercito irregolare curdo partecipò allo sterminio nelle stesse aree dove oggi combatte contro l’ISIS).

Perché da qualche anno a questa parte un premier turco (per la prima volta nella storia della Turchia) rivolge ufficialmente le condoglianze alla comunità armena? Invece di continuare a fantasticare sul paradiso kemalista che era la Turchia prima dell’avvento del “sultano”, si provi a rispondere alla domanda (con parole proprie).

La tendenza ad addossare a Erdoğan ogni responsabilità europea e occidentale è ormai un riflesso pavloviano: secondo i nostri autorevoli opinionisti, per esempio, sarebbe stato lui a consentire agli jihadisti con passaporto europeo di andare a combattere in Siria e Iraq. Eppure le autorità turche hanno ripetutamente protestato contro l’Unione Europa per la mancanza di controlli verso i propri cittadini: è ridicolo, quindi, accollare le colpe di Francia, Inghilterra, Belgio, Germania e Italia (una cinquantina di militanti Isis passati dal nostro territorio) alla Turchia – en passant dovremmo ricordare che tra quelli che chiamiamo “tagliagole” ci sono soggetti che i servizi segreti occidentali conoscono da anni e che evidentemente non sono più in grado di controllare (anche per questo Joe Biden si è dovuto scusare con Erdoğan).

Del resto il premier turco ha espresso pubblicamente le sue perplessità sulla condotta statunitense, sia per quanto riguarda la strategia del “butta la bomba e scappa”, sia per il sostegno incondizionato ai curdi. Se egli fosse davvero un “Sultano” come si dice, il suo atteggiamento sarebbe comunque più dignitoso di quello di qualsiasi “sceicco”: è vero che la Turchia ha le sue responsabilità nella destabilizzazione dell’area (come tutte le nazioni circostanti), ma la strategia cosiddetta “neo-ottomana”, in quanto rispettosa delle tradizionali identità etnico-religiose, si rivelerà a lungo andare più efficace di qualsiasi esperimento di ingegneria sociale condotto a suon di stermini (questo detto proprio fuori dai denti, sempre per passare per il giannizzero che non sono).

Veniamo, infine, ai principali fomentatori della turcofobia: i gazzettieri. Su di loro dirò poco, perché è noto abbiano la querela facile. Mi limito a segnalare un episodio piuttosto rappresentativo: nel cappello all’intervista al Corriere ad Ali Kenanoğlu, leader del partito di sinistra filocurdo HDP, il giornalista lo ha definito “alawita come il presidente siriano Assad”.

Confondere gli aleviti con gli alawiti è l’errore più classico di chi crede di sapere tutto sulla Turchia. Il fatto che costui non sia il primo a cascarci non è una scusante, poiché non si tratta solo di una trascurabile gaffe: sarebbe bastata una ricerca di 0,40 secondi con Google per scoprire che il buon Kenanoğlu aveva già rilasciato una intervista (in inglese) nella quale affermava chiaramente che «Assad has no relation to Alevism» e che l’idea di accostare gli aleviti turchi con Assad è talmente assurda da poter venire in mente solo alla giunta Erdoğan, desiderosa di trovare qualsiasi scusa per reprimere una minoranza interna (a dir la verità bastava anche la prima riga di una pagina di Wikipedia).

Mi sono permesso di segnalare (solo per correttezza) la cantonata a Kenanoğlu, ma sembra che fortunatamente il nostro non l’abbia presa male. Forse gli dispiacerebbe di più sapere che i giornalisti italiani dopo anni passati a scrivere “Erdogan” (e adesso pure KenanoGlu…) non hanno ancora capito che nella lingua turca la “G” normale (che è sempre dura) e la “G dolce” (Ğ) sono due lettere diverse e che quest’ultima non si pronuncia, ma allunga il suono della vocale precedente.

A parte le battute, è sintomatico che un giornale come il Corriere, da sempre schierato contro Erdoğan, finisca involontariamente per avallare uno dei cavalli di battaglia della “propaganda di regime” (peraltro poco sentito dal popolo turco stesso, che sa benissimo che i propri aleviti, seppur turbolenti, non sono né filo-siriani né filo-iraniani).

Per ignoranza, ma anche per mancanza di ignoranza: perché se provassimo a guardare alla Turchia senza pregiudizi scopriremmo un Paese molto simile al nostro, in cui la popolazione è sempre sull’orlo della guerra civile, la questione religiosa non è ancora risolta, la nostalgia per un impero mai sopita e il cortocircuito tra il senso di colpa di esser stati emigranti e l’impossibilità di accogliere milioni di profughi è altrettanto lacerante.

A pensarci bene, la turcofobia non è che la fase suprema dell’italofobia, quella che adesso non possiamo più permetterci, visto che decenni di autorazzismo non ci hanno fatto diventare tutti tedeschi: Wir sind die Türken von Morgen.

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