“Sapete cosa voleva fare Erdogàn?” (I pericoli della turcofobia)

Un lettore, chiosando la mia breve rassegna sui topoi della turcofobia dedicata alle imprese pubblicistiche del giornalista Alberto Negri, mi segnala un intervento di costui a una conferenza del dicembre 2015 (v. video supra, a partire da min. 6), che gli avrebbe lasciato un’impressione “molto negativa” del personaggio.

Non ho voluto indagare ulteriormente sui motivi di tale sensazione (anche perché il caro lettore non ha più risposto), ma credo di aver intuito la causa del disagio: Negri, parlando “a braccio”, si lascia andare a considerazioni che in effetti potrebbero risultare indigeste a chi è poco aduso a un certo tipo di retorica. Tuttavia il giornalista in quella sede non dice nulla di diverso da quanto scrive regolarmente sulle più importanti riviste italiane: sono i suoi seguaci che, avendolo accettato “sulla fiducia” come una delle fonti più attendibili sul Medio Oriente, si rifiutano di considerarlo con un minimo di occhio critico.

Ecco, forse sentirlo parlare “fuori dai denti” può essere utile a comprendere il grandissimo numero di opinioni (postulati, pregiudizi, presupposizioni) che questo professionista dell’informazione presenta come fatti a un pubblico orma incapace di distinguere gli uni dagli altri.

Prima di passare a una breve disamina del Negri-pensiero, ci tengo a precisare che non ho nulla contro di lui e che ovviamente ognuno può pensarla come vuole: se sono costretto a polemizzare, è solo perché i suoi articoli hanno contribuito a modellare l’immaginario italiano su tutto ciò che riguarda il Levante, alimentando una miriade di pregiudizi che si stanno consolidando in un’unica e monolitica “narrazione” anti-turca.

Partiamo da ciò che precede il dirompente epilogo. Alberto Negri imposta la sua argomentazione su alcuni pilastri: Assad è il miglior interlocutore per l’Occidente; in Siria non potrà mai esistere alcuna opposizione moderata; Erdoğan è l’unico tiranno della regione (secondo solo alla dinastia saudita); la Russia è la sola potenza autorizzata a invadere il proprio “cortile di casa”; la NATO non ha bisogno di un alleato come la Turchia. Eccetera eccetera; questo solo per farvi capire come il giornalista riesca abilmente a presentare le proprie tesi come verità assolute e auto-evidenti, in grado di imporsi da sé senza bisogno di alcuna dimostrazione.

Il meglio però Negri lo dà appunto nella parte finale della conferenza, quando si esalta fino allo spasmo e cerca col suo fervore di coinvolgere la platea (a dire il vero piuttosto indifferente, se non imbarazzata).

Prima di tutto, il giornalista, almeno da quel che possiamo dedurre dalle sue parole, ha un’idea della guerra piuttosto “controversa”: la considera infatti uno dei mezzi privilegiati per difendere “ideali” e “valori”, in un misto di romanticismo politico annacquato e attivismo liberal di stampo americano.

Da tale petitio principii egli deduce che i sauditi siano dei “cialtroni” incapaci di fare la guerra perché la fanno fare agli altri. Non vorrei sembrare saccente, ma è dalla notte dei tempi che esistono i mercenari e non sempre il loro utilizzo è sintomo di decadenza, specialmente in un’area dove tradizionalmente la nobiltà ottomana (il famigerato “latifondo sunnita”) disdegna il mestiere delle armi limitandosi a “custodire” il proprio feudo dalle minacce esterne.

Sì, forse è poco corretto chiamare in causa la storia per rispondere a una concione che lascia il tempo che trova, ma credo che uno dei problemi degli “inviati speciali” in generale (non solo di Negri, quindi), sia quello di ingigantire il valore delle esperienze personali e della cronaca giornalistica, fino a farne l’unico criterio di giudizio sull’attualità.

Ad ogni modo, volendo prendere sul serio il postulato di Negri, ci domandiamo perché ad Assad e a Putin dovrebbe essere consentito fare la guerra per “difendere i propri valori” (che il giornalista identifica quasi totalmente coi “nostri”), mentre a Erdoğan no: questo discorso è infatti incentrato sulla fissazione che se i turchi bombardano, è soltanto per cattiveria e per cupidigia (vogliono “far bottino”): da qui discende anche gli scontati elogi ai curdi, ovviamente rivolti non ai Peshmerga, alleati dell’inane “occidente” («signori con delle pance così e pieni di soldi e petrolio» secondo l’imparziale giudizio di Negri), ma direttamente al PKK, l’eroica formazione terroristica che i malvagi turchi hanno voluto colpire per favorire l’Isis (è un copione che si scrive da solo!).

Riuscite a comprendere quanta improvvisazione, quanta superficialità, si celano dietro analisi di questo tipo? È disarmante dover precisare l’ovvio, cioè che se i turchi combattono contro una parte di curdi non lo fanno per innata crudeltà, ma solo per difendere i propri interessi: mi domando cosa farebbe Negri, se fosse presidente di una nazione minacciata dagli attacchi terroristici di un gruppo etnico che punta alla secessione. Anche se fossi disposto ad accettare la sua prospettiva “bellico-idealistica”, non saprei comunque quali conclusioni trarne: forse che l’“occidente” dovrebbe appoggiare il PKK, la componente più estremistica di quel mondo etnicamente e linguisticamente eterogeneo che è il fantomatico “Kurdistan”, perché sarebbe più vicino ai “nostri valori” che non la Turchia?

Avrei molto da aggiungere sulle sparate del buon Negri: per esempio, quando afferma che “ci siamo fatti comprare dagli arabi”, citando un unico caso (la Piaggio), sarebbe utile ricordare che l’intera industria nazionale è stata svenduta a mezzo mondo, e che per certi versi l’Italia avrebbe tratto più vantaggio dal farsi “saccheggiare” da un unico padrone piuttosto che lasciarsi spappolare dalla globalizzazione. Preferiamo però sorvolare su questo e anche su altre cose più sgradevoli, come l’abuso degli stilemi sul “terrorismo di Stato”, gli aneddoti su “Bin Laden e la torta di riso” (?!) e la lezioncina sul perché «non c’è un attentato nel centro di Londra», col tono del “parente del parente” che a ogni Natale tenta di spiegarti il senso della vita («Certo, “amori” [sic], il 70% di Kensington è abitato da arabi ricchi, che pagano per tenere lontani quelli che fanno gli attentati»). Sappiamo che dopo un anno e mezzo da queste infelici parole l’attentato è arrivato, ma oltre che inelegante sarebbe anche superfluo rimarcarlo, dal momento che se la realtà interferisce con i propri infallibili teoremi è sempre possibile ignorarla.

Potremmo forse dire qualcosa su giudizi altrettanto infelici, come quello secondo il quale «i libici da soli non sono in grado di fare nulla», sintomo di un paternalismo che gli italiani dovrebbero rifiutarsi di applicare agli altri popoli, essendo da sempre le prime vittime di tale atteggiamento. Ma tagliamo corto con le polemicucce e veniamo al punto: tutta questa retorica, che intride in modo più o meno attenuato la maggior parte dei pezzi del Nostro, pur non rappresentando un’ideologia vera e propria, è comunque rivelatrice di una visione del mondo che prima di essere abbracciata toto corde andrebbe (lo ripetiamo) valutata criticamente.

Usare come unici criteri simpatie e antipatie personali per esaminare la situazione internazionale non mi pare un atteggiamento intellettualmente onesto, in particolare quando si mascherano tali sentimenti con un presunto “realismo”.

Certo, non è la prima volta che dietro un’ostentazione di pragmatismo si palesa il più ingenuo degli idealismi (o “ideologismi”) ma, nel nostro caso, vorrei che fosse chiaro che al fondo della turcofobia con la quale i media ci martellano da anni c’è ancora il proverbiale “armiamoci e partite”: se tuttavia non piacciono le guerre per procura, si dovrebbe anche evitare di far la parte degli ascari in un Kulturkampf che neanche si comprende fino in fondo.

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