I primi terroristi europei (A. Besançon)

(I. Glazunov, illustrazione per I demoni di Dostoevskij)

«[…] Agli inizi del 1870 l’organizzazione terroristica [dei rivoluzionari russi] progettò una strategia indiretta: il mezzo essenziale per abbattere il nemico è quello di accattivarsi la simpatia della società. Il governo era il bersaglio dichiarato degli attacchi, ma l’oggetto reale era la società civile.  Con i suoi fini moderati, le sue aspirazioni a una vita borghese regolare, nella piena legalità, la società civile prova una segreta ammirazione di fronte agli atti terroristici più eclatanti ed è sedotta dal comportamento del terrorista.
Così il pubblico fu dalla parte dei perseguitati, li aiutò materialmente e li appoggiò moralmente. L’opinione era favorevole quando fu assassinato il governatore di Petersburg e quando i sicari fuggirono all’estero. Giornalisti e scrittori famosi protestavano ogni volta che un terrorista veniva condannato a morte. Esprimevano indignazione e disprezzo quando la sentenza veniva eseguita. Soloviev, un grande filosofo russo, contestò l’impiccagione degli assassini dello zar. Così fecero Tolstoj, Leonid Andreyev e in pratica tutto il mondo letterario. All’estero sia l’opinione progressista sia quella conservatrice considerarono il regime zarista privo di basi morali, illegale e votato alla distruzione sovversiva.
Come si può spiegare questa reazione? Essa proveniva da due forze ancora estremamente vitali: confusione politica e complicità filosofica. Nell’ambito dell’ancien régime, per molti versi imperfetto come lo era quello zarista, vi era uno stato di generale scontentezza. Ma dobbiamo distinguere fra le due risposte estreme che, sebbene legate, sono sostanzialmente differenti l’una dall’altra: ribellione e rivoluzione. Il ribelle accetta l’idea di giustizia. Egli cerca di restaurare la legge e la giustizia con mezzi illegali e spesso ingiusti. Ma una volta restaurata la giustizia, nel senso più comune della parola, cessa la rivolta. All’opposto, il rivoluzionario non accetta l’idea comune di giustizia. Essa dipende da una forma completamente nuova delle relazioni sociali, resa possibile attraverso la rivoluzione. La giustizia non si fonda sulla responsabilità degli uomini, i quali nella loro posizione possono decidere di agire o no secondo la legge. Essa risiede soltanto nella struttura impersonale di una nuova società, fondata dalla rivoluzione in base a una rivelazione dottrinale. L’azione terroristica prepara soltanto la via a questa palingenesi sociale.
Durante il diciannovesimo secolo, il mondo culturale russo confuse ostinatamente rivolta e rivoluzione. Il terrorista fu paragonato al martire cristiano o all’eroe schilleriano. Ciò che è peggio, la penetrante convinzione di un mondo impuro, perverso, che non merita di essere conservato e difeso è sopravvissuta fino ai nostri giorni.
Dostoevskij odiava il rivoluzionario russo, il “demone” ateo, cosmopolita. sradicato e spietato (sebbene aborrisse anche il mondo occidentale e la libera società borghese a cui la Russia stava tentando di avvicinarsi). Il suo sdegno era l’eccezione. Altri grandi scrittori, sebbene disapprovassero del tutto i terroristi, provarono una sorta di attrazione byroniana verso di loro, viva ancora oggi. Tolstoj, per esempio, fu un non violento, ma elaborò una sorta di moralità sublime, basata sul rifiuto dell’interesse personale, della proprietà privata e della legge come tale. Sebbene Tolstoj non approvasse chi andava a piazzare le bombe, esisteva tuttavia una certa affinità tra l’uomo di cultura nonviolento e il terrorista violento. Entrambi odiavano il mondo della borghesia, il sovrano, il poliziotto. Entrambi condividevano lo stesso disprezzo per l’uomo comune, dedito ai suoi interessi egoistici, mediocri e materialisti.
La persistenza di quest’affinità con il terrorista tra molti intellettuali moderni rende particolarmente difficile la lotta al terrorismo e carica questi intellettuali di una grave responsabilità. Infatti, se è difficile combattere il terrorismo sul piano pratico, è ancora più difficile sradicare un nichilismo profondamente insito nella nostra cultura e che dà origine al terrorismo. esso è generato da uno spiritualismo deforme, da un distorto romanticismo e da un profondo astio nei confronti della vita, che spinge giovani apparentemente idealisti al fanatismo. Curare l’anima è un compito che va al di là della portata e dello scopo delle autorità. Ma è responsabilità di scrittori, pensatori e di formatori dell’opinione pubblica»

(Alain Besançon, “I primi terroristi europei”, in Terrorismo. Come l’Occidente può sconfiggerlo, Mondadori, Milano, 1986, pp. 58-60)