Il terrorismo è uno strano rituale

Da qualche tempo gli estremisti di sinistra del gruppo Arran, legato al partito indipendentista Candidatura d’Unitat Popular, hanno iniziato a imbrattare Barcellona con scritte minacciose contro i turisti, come quella qui di seguito (col senno di poi leggermente macabra):

A inizio di questo mese gli “attivisti” hanno poi deciso di “alzare il livello” della contestazione, assaltando un bus di visitatori (quasi a mettere in scena una parodia di attentato terroristico) e tagliando le gomme alle bici del bike-sharing comunale (a quanto pare un servizio troppo apprezzato dai turisti).

Dopo nemmeno due settimane, si è scoperto che l’equazione “turista = terrorista” non era del tutto azzeccata, e che gli unici veri terroristi restano sempre… i terroristi (A → A).

Con tale consapevolezza, si può meditare sul commento che il giornalista catalano Enric Juliana ha rilasciato in un’intervista al “Corriere” riguardo l’iniziativa (Volevamo il successo, ora però dobbiamo limitarlo, 4 agosto 2017:

“L’aggressione è avvenuta un periferia, per fortuna: con l’allarme antiterrorismo e il centro presidiato, se la polizia vede quattro tizi mascherati assalire un bus turistico, può succedere un massacro”.

Il massacro c’è stato, ma non nelle forme evocate dal giornalista e dai contestatori. Eppure, è come se ci fosse un legame, seppur sottilissimo (o forse solo frutto delle mie suggestioni), tra la pantomima e l’atto reale.

Il terrorismo è infatti uno strano rituale, che si perpetua attraverso il diabolico meccanismo della mimesi, insignito ultimamente anche di base biologica (i “neuroni specchio” di cui tanto si discute). Ci troviamo di fronte a un fenomeno che si potrebbe definire come “paradosso di Werther” (una variazione sul tema del famoso “effetto” con cui si registra un aumento di suicidi ogni volta che i media annunciano che qualche celebrità si è tolta la vita), ovvero: è davvero possibile imporre la censura sulle notizie riguardanti gli attentati, per evitare il pericolo di emulazione, oppure qualsiasi provvedimento del genere obbligherebbe a estendere la censura a livelli inimmaginabili (fino all’instaurazione di uno stato, se non di polizia, almeno di “psico-polizia”)?

Credo che su questo punto dovremmo purtroppo rassegnarci: quella che stiamo vivendo è la stagione del terrore. L’unica cosa che possiamo fare è evitare ogni forma di ipocrisia, sia a livello personale che sociale (e politico). In primo luogo, perché non abbiamo a che fare con degli “insospettabili”, ma con individui che a causa della tolleranza politicamente corretta hanno coltivato una hybris allucinante. Forse l’estendersi del “contagio” sta favorendo un cambiamento di mentalità (o “sensibilità”) nei confronti del problema: temo tuttavia che ci vorrà del tempo prima che il sanglot de l’homme blanc si attenui. Per ora è già un progresso il fatto che molti leitmotiv stiano lentamente scomparendo dai palinsesti giornalistici: niente più “Li abbiamo bombardati prima noi”; “È una reazione all’islamofobia”; “Gli incidenti stradali e l’alcolismo uccidono più persone”; “Il cambiamento climatico è la prima causa del terrorismo”, eccetera.

Bisognerà infine rendersi conto una volta per tutte che si tratta, come detto, di una questione di hybris, e agire di conseguenza. Per esempio, non azzardarsi mai più a giustificare l’assalto alla redazione di un giornale in quanto colpevole di aver “insultato la fede degli altri”; è necessario far passare il principio che chi offre un alibi agli assassini alimenta l’emulazione più di qualsiasi diretta televisiva.

Non vorrei invece perdere un solo istante a deplorare complottismi e paranoie varie, poiché è evidente che alcune persone sono talmente dissociate da non rendersi conto neppure di quel sta accadendo nel loro vicinato. La realtà è stata descritta plasticamente dall’orientalista francese Oliver Roy, con una formula che seppur già abusata resta valida: non siamo di fronte una radicalizzazione dell’islam, ma a una islamizzazione del radicalismo. Il che ovviamente non dovrebbe portare a ripetere ossessivamente le solite baggianate, del tipo “islam vuol dire pace” (eterna, probabilmente), ma semmai stimolare un approccio concentrato in primis su quegli immigrati di seconda generazione suscettibili di indottrinamento: anche in Italia abbiamo tanti aspiranti jihadisti che hanno “l’intelligenza di un posacenere vuoto” (così l’avvocato di uno dei terroristi che attaccarono Parigi nel novembre del 2015) e che sono pronti a colpire con qualsiasi mezzo possibile (dai coltelli da cucina alle bombole del gas). Far finta che tutto ciò non stia accadendo è un atteggiamento che ormai non ha più alcun senso (semmai l’abbia avuto).

Sull’argomento ho scritto anche troppo e corro il rischio di diventare ripetitivo. Al punto in cui siamo giunti, l’unica cosa originale che potrei aggiungere è una previsione sul prossimo attentato. Un’impresa non del tutto impossibile, poiché a ben vedere c’è una logica in quanto sta accadendo (come del resto in ogni vicenda umana): coloro che ci attaccano sono anch’essi interessati ad “alzare il livello”, cioè a capire fin dove possono spingersi prima del contraccolpo.

Finora i terroristi hanno avuto la strada spianata, dal momento che quando hanno attaccato la nostra idea di “libertà d’espressione”, noi lo abbiamo considerato un “compromesso” accettabile con la “libertà di fede” invocata dagli assassini; quando hanno fatto mattanza di bobos durante un venerdì sera parigino, noi abbiamo incolpato la destra populista e xenofoba (che poi in Francia ha comunque perso); a un certo punto qualche scheggia impazzita si è messa a sgozzare un prete, ma si è trattato solo di un “incidente di percorso” (tanto è vero che nessuno ricorda il nome di quel canuto martire); in seguito sono passati agli aeroporti, ma niente; alle passeggiate sul lungomare, e niente ancora; ai locali gay, e niente manco lì (incredibile!); ai mercatini di natale, e sempre nulla; hanno fatto saltare in aria dei bambini a Manchester, ma neppure questo è servito a svegliarci dal torpore; infine, hanno colpito Barcellona, uno dei “santuari” contemporanei, e forse lì qualcuno si è sentito finalmente più vicino alle vittime dell’islam che a quelle dell’islamofobia.

Da una prospettiva più ampia, la dinamica assomiglia a quella di una tortura cinese (o alla famigerata Nadelstichtaktik), dunque è possibile che il prossimo obiettivo sarà ancora più simbolico e possibilmente più “offensivo” degli altri (almeno a livello mediatico). Meglio tuttavia tenersi per sé qualsiasi previsione, poiché il terrorismo è davvero uno strano rituale