Simone de Beauvoir, la castorina di Sartre

L’animale domestico più amato da Jean-Paul Sartre fu “Simone de Beauvoir”, uno splendido esemplare di donna-castoro, che lui preferiva chiamare col nomignolo di Le Castore (per l’assonanza del nome della specie “de Beauvoir” con l’inglese beaver).

“Simone” era la tipica donna-castoro specializzata in racconti per bimbe-castoro: una delle fiabe che amava raccontare era intitolata Donna non si nasce, si diventa. In genere le protagoniste delle sue storie erano altre donne-castoro che cercavano l’emancipazione dal dominio maschile. Secondo “Simone de Beauvoir”, le donne-castoro del passato, attraverso le loro scelte esistenziali, si erano rese complici della loro stessa sudditanza. La subordinazione della donna-castoro al maschio non era una questione di biologia, ma un equivoco teorico, che alla fine della favola veniva sempre risolto dal Principe Esistenzialista.

Un giorno Sartre vide questo pregiato esemplare di donna-castoro scorrazzare per i dintorni della Sorbona. La catturò e se la portò a casa. Da quel momento, “Simone” finalmente capì che l’anatomia non è un’opinione, ma un destino. La castorina infatti fu docile amante, moglie, cuoca e infermiera del filosofo francese

Sartre l’aveva fatta addestrare per potersi comodamente godere le altre donne-castoro (negli anni ’50 arrivò a possederne nove esemplari per volta). Nei suoi Taccuini di guerra scrisse di voler «conquistare una donna nel senso di catturare un animale selvaggio, ma solo allo scopo di elevarla dal suo stato selvaggio alla parità con l’uomo».

La donna-castoro si ridusse al ruolo di mezzana per il bene del coniuge: era lei stessa infatti a portare “carne fresca” al padrone, come quando presentò a Sartre una delle sue allieve, Olga Kosakiewicz. Il filosofo si trovò talmente bene, che decise di approfittare anche di Wanda Kosakiewicz, sorella dell’educanda.
Tuttavia “Simone” non si perse mai d’animo: su uno dei suoi libri di fiabe annotava che «non avrei abbandonato [ad Olga] il posto sovrano che io occupavo, al centro dell’universo». Per la donna-castoro, il padrone era tutto: ne parla continuamente nelle sue memorie, fino allo sfinimento. Al contrario di Sartre, che non accennò mai al dolce animale domestico, neppure nei Cahiers.
A giustificazione della imbarazzante passività di “Simone”, dobbiamo però ricordare che Sartre fu un uomo molto affascinante, di una bellezza tutta particolare. Così lo ricorda il regista John Huston nella sua autobiografia:

«Un barilotto d’uomo, brutto come il peccato: la faccia gonfia e butterata, i denti giallastri, gli occhi strabici. […] Non sapeva cosa volesse dire conversare. Parlava senza smettere. Impossibile interromperlo. Uno aspettava che si fermasse a prendere fiato: e invece no. Le parole gli sgorgavano dalla bocca come un torrente ininterrotto. […] Si fermava soltanto per annottare le sue stesse frasi» (J. Huston, An open book, Knopf, New York, 1980, p. 295).

Per di più, la donna-castoro seppe anche farsi valere come “castora emancipata”: di fronte alle centinaia di amanti di Sartre, anche lei si concesse un paio di scappatelle, che sortirono purtroppo effetti opposti a quelli desiderati. Quando per esempio “Simone” descrisse nei Mandarini il tentativo di seduzione messo in atto da Arthur Koestler, Sartre le rise in faccia. E quando invece riprodusse le lettere del suo unico vero amante, lo scrittore americano Nelson Algren, quest’ultimo la prese malissimo, e nella sua ultima intervista disse:

«Al diavolo, le lettere d’amore dovrebbero essere una faccenda privata. Sono stato nei bordelli di tutto il mondo, e le donne chiudono sempre la porta, in Corea come in India e altrove. Ma in questo caso è come se lei avesse convocato in camera da letto pubblico e stampa al gran completo».

(Dopo lo sfogo, Algren fu colpito da infarto e morì quella notte stessa).

In fondo, Le Castore aveva sempre sognato un destino così:

«La coppia è un’unita fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l’una all’altra. […] Ecco ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l’Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l’uno all’altro» (Il secondo sesso, tr. it. R. Cantini e M. Andreose, Milano, il Saggiatore, 2002, p. 19).

E allora, perché tanto baccano, nonostante avesse ottenuto il posto al quale anelava? Gli è che la poverina teneva ancora al suo ruolo di affabulatrice; questo la obbligava ad aggiungere che «liberare la donna significa rifiutare di chiuderla nei rapporti che ha con l’uomo, ma non negare tali rapporti» (Ivi, p. 833).

Alla fin fine seppe però riconoscere la sua vera essenza, pur utilizzando il vecchio trucco della “proiezione” dei propri difetti sugli altri:

«Le grandi borghesi, le aristocratiche, hanno sempre difeso i loro interessi di classe con più ostinazione ancora dei loro mariti: non esitano a sacrificare loro radicalmente la propria autonomia di essere umani; soffocano in se stesse ogni pensiero, ogni giudizio critico, ogni slancio spontaneo; ripetono da pappagalli le opinioni ammesse; si confondono con l’ideale che il codice maschile impone loro; nel cuore, sul loro volto stesso è morta ogni sincerità. […] Il finanziere, l’industriale, talora anche il generale, assumono compiti faticosi, preoccupazioni, rischi; acquistano i loro privilegi con un ingiusto mercato, ma per lo meno pagano di persona; le loro spose in cambio di tutto ciò che ricevono non danno niente, non fanno niente; e credono con una fede tanto più cieca nei loro imprescrittibili diritti. La loro vana arroganza, la loro radicale incapacità, la loro ostinata ignoranza, ne fanno gli essere più inutili, più nulli che abbia mai prodotto la specie umana» (Ivi, pp. 720-21).

Ed è così che la castorina finì impagliata.

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