Papa Francesco e l’Italia dei rebus

Un intramontabile articolo di Alessandro Giorgiutti, I rebus della “Settimana Enigmistica”, risalente a luglio 2009 e custodito da “Il Covile”, esorta il lettore a penetrare nel mistero rappresentato dalle miniature della “Settimana Enigmistica”, al fine di delinearne una specifica poetica (se non, addirittura, una mistica):

«Anche se non rientro nel novero degli abili solutori, sono un fedele lettore della “Settimana  Enigmistica”. Mi piace, in particolare, guardare le vignette dei rebus.
In quelle tavole in bianco e nero è rappresentata un’Italia che non c’è più. Come se, in quelle pagine, la nostra nazione, il nostro popolo si fosse stranamente fermato agli anni ’50. Ci sono donne velate che entrano in chiesa con le mani giunte o sgranando un rosario. Contadini che portano sulle spalle pesanti sacchi, dai quali cade sempre qualcosa. I bambini danno la caccia a un’oca con un bastone, oppure giocano con le fionde, e le nascondono dietro la schiena negando di aver rotto la finestra  dell’edificio  di fronte. Nelle case c’è un tavolino con la foto di uno zio lontano, con i capelli corti e i baffi. Nella sala da pranzo, le sedie e il tavolo sono di legno. Sul tavolo, una cesta di frutta e un libro di scuola dimenticato da un ragazzino (in quell’epoca d’oro si studiavano Carducci e Virgilio, l’Iliade e l’Orlando Furioso, già alle elementari). Le finestre si aprono su paesaggi agresti. Nel cielo sfrecciano le rondini.  Ci sono vecchi che pompano l’acqua da un pozzo. I bimbi hanno i calzoni corti e le ginocchia sbucciate. I signori portano il cappello largo, le signore la gonna lunga. Una coppia di giovanotti incrocia una coppia di ragazze lungo la strada del paese. Ma non è uno scenario idealizzato. Non mancano le liti anche violente e, particolare che mi ha sempre impressionato, ci sono sempre alcune donne ammanettate, dallo sguardo cupo, che severi poliziotti conducono in prigione. Ma questi particolari sgradevoli non fanno che rendere realistica la raffigurazione, acuendo pertanto nel giovane lettore quella strana nostalgia di un tempo che non si è vissuto».

Per una di quelle coincidenze storiche che in tempi di crisi ci lascia sperare in una finalità intrinseca all’umane vicende, l’immagine dell’Italia offerta da questi rebus combacia con quella che oggi impronta il magistero sociale di Papa Francesco, una certaine idée de l’Italie cristallizzata nelle mitologie familiari dei migranti piemontesi in Argentina.

Una comunità fiera della «forza della razza» (come dichiarò Bergoglio nel libro-intervista del 2010 El Jesuita, ristampato in occasione dell’elezione nel 2013), dove le nonne insegnano ai bambini le poesie dialettali di Nino Costa (in diverse occasioni Francesco ha recitato a memoria “Rassa nostran-a”, canto dedicato ai piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia), e dove il futuro pontefice cresce come «il più italiano di tutti, perché allevato dai nonni»; un microcosmo nel quale, come una di quelle vignette in bianco e nero, c’è uno zio materno “svergognato” che insegna ai nipoti «delle canzonette sconce in dialetto genovese» e ci sono genitori severi che «non tollerano un figlio o un nipote sfaccendati»; dove, infine, tutti sono costretti a parlare in dialetto piemontese, persino, come ricorda il De Amicis, «i tedeschi, gli inglesi, i francesi che fanno affari con la colonia».

Le poesie di Nino Costa hanno enormemente contribuito a forgiare il patrimonio simbolico di Bergoglio: liriche come Ai piemonteis dl’Argentin-a (nella quale il poeta ricorda ai “fratei dl’Argentin-a” il suono delle campane, le acque che sgorgano dai ghiacciai, il respiro delle pecore, le movenze delle belle monferrine, il ginger di Torino…), Don Bòsch (un affresco epico de «la prima companìa dij Salesian»), oppure quella Rassa nostran-a che, come abbiamo detto, Francesco non perde occasione di declamare («Dritt e sincer, còsa ch’a son, a smìo: | teste quadre, polss ferm e fìdigh san | a parlo pòch ma a san còsa ch’a dìo | bele ch’a marcio adasi, a van lontan»), hanno modellato la leggenda della umile Italia, «eredità dei padri nel presente», benedetta e pastorale, laboriosa e feconda.

Tutto ciò che può offuscare l’immagine della Patria ideale viene da Francesco fortemente osteggiato. Per esempio, il calo della natalità è per lui «una forma di suicidio sociale» (p. 159), tanto che anche nella famosa polemica sul “Non siamo conigli” egli ha comunque proposto un limite di tre figli per coppia. O, ancora, il timore di un’apostasia collettiva in favore del protestantesimo, un fenomeno al quale Bergoglio da cardinale ha dovuto assistere in molte comunità del Sud America, lo costringe a concedere alla sua “Italia ideale” più di quello che il radicalismo di massa contemporaneo consentirebbe.

Da tale mitologia derivano molte delle contraddizioni e degli attriti che il magistero di Francesco deve continuamente affrontare. È la sua utopia personale e, se Dio lo vorrà, sarà la realtà a piegarsi a essa e non viceversa. Ma è ancora troppo presto per parlare di questo.

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