Žižek e l’Albania fascista

Slavoj Žižek, in un’intervista per “La Lettura” (L. Mastrantonio, Un marxista contro i sindacati, 26 ottobre 2014) ha espresso il desiderio di scrivere un libro su Galeazzo Ciano, figura storica da rivalutare perché «l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro».

È raro che le opinioni politiche del filosofo, una volta caduta la maschera “supercazzolistica” (o il Lacanian Smokescreen, se preferite), non si rivelino di una pochezza sconcertante. In tal caso, la dichiarazione sul “Ciano benefattore” è sospetta per due motivi: in primis perché con questa battuta egli vorrebbe accattivarsi il lettore italiano, forse credendolo sciovinista e identitario, dimostrando così una concezione meschina ed ambigua del nostro Paese; in secondo luogo, è sospetta perché essa giunge dopo una serie di affermazioni decisamente imbarazzanti sulla necessità di una “Grande Albania” etnocentrica e totalitaria per risolvere la questione balcanica (a tal proposito consiglio l’eccellente “decostruzione” di uno dei suoi ultimi libri, From Myth to Symptom: The Case of Kosovo, da parte del politologo serbo Dragan Plavšić sulla rivista “LeftEast”: Did Somebody Say Ethnic Partition? A Critique of Žižek on Kosovo and the Balkans).

Al di là delle opinioni personali sul filosofo, è evidente che egli non ha né le capacità per scrivere un libro minimamente comprensibile, né gli strumenti intellettuali per affrontare un argomento controverso e problematico come l’Albania fascista (egli stesso sembra essere consapevole dei suoi limiti, tanto è vero che subito dopo dichiara di avere “lavori più seri” da fare…).

In ogni caso, se il suo desiderio di pubblicare finalmente qualcosa di leggibile fosse sincero, egli dovrebbe perlomeno prendere atto della vastissima bibliografia sul tema, a cominciare magari dal quarto volume de L’epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa di Michele Rallo (2002), dedicato appunto a Albania e Kosovo, dove peraltro troverebbe giudizi entusiastici sull’occupazione italiana pari a quello da lui espresso (la tesi dello storico, apertamente filofascista, è che l’Italia è da sempre «dispensatrice di benessere per il popolo albanese»).

Se non altro Žižek inizierebbe a capire che la cosiddetta “epoca d’oro” non fu soltanto il capolavoro di Ciano, ma soprattutto l’esito di un lunghissimo rapporto di amicizia tra i due popoli iniziato molto prima del Ventennio, sia a livello politico che culturale: l’Italia infatti, oltre a promuovere missioni archeologiche, edificò scuole, ospedali, orfanotrofi, acquedotti, strade (il centro di Tirana fu rifatto a nuovo dall’architetto Armando Brasini).

Dunque parlare del rapporto italo-albanese solo in termini di “fascismo” è un eccesso degno di chi oggi non si perita di fomentare il nazionalismo più becero solo per épater la bourgeoisie multiculturelle (come afferma Plavšić). Bisogna tuttavia concedere che ai tempi in cui l’Albania divenne «la nuova gemma della corona sabauda» l’alleanza tra i due popoli fu molto più vivace e appassionante di quella odierna, impostata ormai quasi esclusivamente su un deprimente “europeismo”.

Per capire lo spirito dell’“epoca d’oro” (che, come detto, non fu solamente fascista), si potrebbe leggere con un certo profitto Albania. Quinta sponda d’Italia (CETIM, Milano, 1939) di Pio Bondioli (1890–1958), ufficiale in Albania e Grecia durante la Prima Guerra Mondiale.

Il libello, pubblicato un mese dopo l’arrivo di Ciano a Tirana (un instant book d’epoca), è densissimo di annotazioni storiche, letterarie ed etnografiche da fare invidia a qualsiasi monografia moderna. Chiaramente lo spirito del tempo si percepisce forte e chiaro, ma forse è questa l’unica lettura che concretamente gioverebbe alle aspirazioni immaginarie di Žižek; consigliamo in particolare le pagine 162-163, dove è riportato un discorso del Ministro Ciano alla Camera dei Fasci del 15 aprile 1939 (un mese dopo l’invasione) sul contributo italiano alla rinascita dell’Albania:

«275 chilometri di strade costruite ex novo; 1500 chilometri di strade riattate su tracciati preesistenti; 100 ponti di media e grande lunghezza e 1000 di lunghezza minore; tutti gli edifici pubblici di proprietà demaniale nelle città di Tirana, Durazzo, Scutari, Elbassan, Argirocastro, Berat e Coritza; costruzione del Porto di Durazzo; arginatura e canali di irrigazioni di numerose Provincie, italiane le Società minerarie, italiane le Società elettriche, italiane tutte le imprese che tendevano a mettere in giusto valore le risorse naturali del Paese e ad offrire ad un popolo, troppo lungamente abbandonato ad un triste destino che per le sue virtù civili e guerriere non merita, un adeguato campo di attività produttrice. E infine italiane, sempre italiane, le iniziative dirette ad elevare culturalmente e spiritualmente le masse popolari albanesi. I capitali impiegati dall’Italia in Albania dal 1925 ad oggi ammontano alla cifra di un miliardo e 837 milioni di lire; cospicua in se stessa, ma resa ancor più imponente dal patrimonio di operosità e di fede profuso a piene mani dalla schiera benemerita di quegli Italiani che hanno fatto dell’Albania il non sempre agevole centro del loro lavoro, pionieri silenziosi e infaticabili di una pacifica impresa, ai quali oggi deve andare la espressione della nostra schietta ed ammirata riconoscenza».

Ora non resta che al filosofo sloveno accordare tutto questo con il cinema di Hitchcock, il capitalismo singaporiano e la teologia politica di san Paolo.

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