Assalto alla Dea Bianca

Nell’ambito della cultura occidentale il concetto di “matriarcato” ha assunto, come sostiene lo storico francese Pierre Vidal-Naquet, una semplice “funzione logica di contrapposizione”, nel senso che dall’antropologia alla sociologia e dalla filosofia alla filologia, non è mai stata portata alcuna testimonianza plausibile dell’esistenza, ai primordi della civilizzazione, di una organizzazione sociale di tal fatta. Anche l’idea di matrilinearità, chiamata spesso in causa per corroborare certe ipotesi non altrimenti sostenibili, è stata perlopiù usata in modo strumentale, attraverso la rimozione in tale sistema di discendenza della regolare presenza di un “capo” maschio (nella maggior parte dei casi un fratello della “matriarca”).

Tuttavia, proprio in veste di “funzione logica”, il matriarcato ha rivestito per millenni un ruolo fondamentale nella civiltà occidentale, tanto che ne ritroviamo trace agli esordi della stessa, nell’Antica Grecia terrorizzata da Amazzoni, Danaidi, Menadi, Arpie, Graie, Gorgoni, Erinni, Lamie, Echidne, Medee e altre figure fantasmagoriche perse nelle nebbie del mito, come l’atroce ginecocrazia di Lemno, le quali acquistano concretezza nel momento in cui, per esempio, il monarca Cecrope assurge a demiurgo civilizzatore imponendo la patrilinearità (e dissolvendo quindi la tribù nella famiglia), oppure, per rimanere coi piedi per terra, quando Aristotele presenta il “governo delle donne” come minaccia all’esistenza stessa di uno Stato.

Il matriarcato, sempre nelle vesti di “funzione logica”, rappresenta perciò il dominio delle tenebre, della luna, degli inferi, in contrasto al quale la virilità ne risulta esaltata come forza civilizzatrice. A ben vedere, non esiste soluzione di continuità tra le concezioni degli antichi greci e quelle di un Bachofen o di un Robert Graves: il matriarcato è sempre quella cosa lì, semplicemente considerata sotto una luce positiva.

E visto che lo abbiamo evocato, ripartiamo proprio da Johann Jakob Bachofen e dalla sua monumentale Untersuchung: ad onta dei sottili propositi storicizzanti, ridotti sempre all’improbabile metodo “storico-fantastico”, persino la dicotomia maschile/femminile che innerva il Mutterrecht è basata su canoni filosofici, se non ideologici.

La femminilità è infatti genuinità, improvvisazione, irrazionalità; la maschialità ordine, ragione, spirito. Il fatto che la contrapposizione si stemperi nelle delicate tinte della Romantik è un altro conto: il giurista svizzero, seppur esaltando in alcuni passaggi il culto della Madre come via elettiva al ricongiungimento con le forze primigenie dell’universo, non può fare a meno di riconoscere il patriarcato come fase ulteriore di qualsiasi civiltà (addirittura la dualità penetra nella ginecocrazia stessa, che viene divisa in ordinata –demetrica– e caotica –dionisiaca-).

Il “gioco”, insomma, dura poco: anche nell’opera di Bachofen il matriarcato finisce indirettamente assimilato all’état de nature russoviano proprio per il suo carattere di “stadio di civiltà” non rintracciabile se non nelle fantasie delle antichi. Da questo punto di vista, più efficace risulta l’impresa di quell’altro teurgo matriarcale sopra citato, Robert Graves, che con il suo La Dea Bianca (1948) è riuscito a propiziare il ritorno della Musa “crudele, capricciosa e irrefrenabile” persino nella cultura di massa. Anche in tal caso, comunque, non si esce dalla classica contrapposizione tra apollineo e dionisiaco, a meno di non voler considerare la sua “inversione” come elemento di originalità, che in fin dei conti non aggiunge nulla di positivo alla ginecocrazia: seppur accudita da questi solerti imbellettatori, essa rimane il dominio crudele e totalitario della donna sull’uomo, in cui l’apice della “emancipazione” è lo sterminio di tutte le figure maschili, dal sovrano sacrificato per le messi a mariti e figli fatti a pezzi per qualche culto “notturno”.

In tal caso, il “gioco” funziona nella misura in cui esso consente a Graves, in quanto “poeta”, di “accoppiarsi” innumerevoli volte con la Dea Bianca, offrendo perciò una lettura del matriarcato in termini di algido pansessualismo: le virgolette sono d’obbligo perché ci troviamo di fronte a quella particolare perversione che il de Rougemont ha definito amour-passion. Non mi stupisce trovarne un riferimento persino nell’introduzione del “mitico” (in tutti i sensi) curatore dell’unica edizione italiana del monumento di Bachofen, Furio Jesi, quando collega l’interrogazione dell’Autore sulla scomparsa delle “eroine” con i famosi versi della Ballade des Dames du temps jadis di François Villon (“Ditemi dove, in quale terra / è il più bel fiore di Roma, Flora? / Dove Archipiada, / dove, beltà gemella, Taide?”), testimonianza, a suo dire, di una “ancora genuina […] memoria delle grandi figure femminili e matriarcali del Medioevo”.

Anche nell’amore romantico è di conseguenza possibile rinvenire tracce di matriarcato, incarnato nella passione irrisolta e tormentata, coltivata nella lontananza dell’amata (amor de lonh) e annullata dal ricongiungimento. Ciò dovrebbe portarci alla conclusione che nel matriarcato non si scopa: sì, capisco che detta così sia davvero brutale, ma non credo che le panzane del Graves meritino qualcosa di più che qualche sfottò. Sembra peraltro che tale consapevolezza esista anche nelle fasi terminali del romanticismo, quando la donna da Grande Madre ritorna “piccola bestia”, cifra riassuntiva della materialità e della debolezza, arcinemica dell’arte e della vera poesia, nonché di tutte le ispirazioni esistenziali o anche politiche.

Come si vede, il matriarcato è rimasto nell’immaginario la “funzione logica di contrapposizione” da cui siamo partiti, la quale semplicemente cambia di segno a epoche alterne, assecondando gli alterni umori maschili (si prendano le diverse concezioni della donna nel superomismo nietzschiano e dannunziano, entrambe basate sull’opposizione tra vita e spirito ma collocate sugli opposti versanti). Al giorno d’oggi la Dea Bianca trionfa su tutta la linea, dalle arti alla politica, dalla filosofia alla scienza: dalla nostra angusta prospettiva riusciamo a intravvedere in atto una vera e propria “tecnologia culturale”, che macina e assimila tutti i temi finora affrontati.

Il matriarcato “reale” dunque sarebbe caratterizzato in primis dal trionfo della “tribù” sulla famiglia, dove la matrilinearità si impone naturaliter attraverso una complessa interazione di libertinismo, femminismo e terrorismo psicologico. Questa alacre opera di ingegneria sociale, condotta sia attraverso la propaganda che la legislazione, troverebbe poi il suo compimento nell’imposizione dell’amore-passione a quella porzione (sempre più ampia) di popolazione maschile che, impossibilitata a riprodursi per motivi perlopiù biologici (ma anche sociali o economici), viene relegata al ruolo degli afidi nei formicai: secretori di sostanze nutritive e protettori della prole altrui.

In conclusione, tengo a precisare che anche questa mia chiave di lettura fa del “matriarcato” non un’opzione concreta proiettata nel futuro o nel passato, ma un fantasma, o un incubo, al quale la nostra specie guarda con ribrezzo. A differenza dei “matriarcalisti” sono però in grado di riconoscere la natura interamente ideologica delle mie analisi e al contempo garantirne la validità: senza nemmeno scomodare la biologia e l’evoluzione, posso soltanto alludere al ruolo destabilizzante che qualsiasi forma di “matriarcato” avrebbe nei confronti dell’umanità. E per chiudere sempre in una dimensione “domestica”, voglio ricordare questo divertente passaggio del de Rougemont che nella sua banalità nasconde più sapienza di qualsiasi “sbiancata” gravesiana.

«Scegliere una donna per farne la propria sposa, non è dire alla signorina Tal dei Tali: “Voi siete l’ideale dei miei sogni, voi colmate alla perfezione tutti i miei desideri, voi siete l’Isotta superlativamente bella e desiderabile, e fornita di un’adeguata dote, della quale io voglio essere il Tristano”. Sarebbe una menzogna, e sulla menzogna non si può fondar nulla. Non c’è nessuno al mondo che mi possa colmare: io stesso, non appena colmato, muterei! Scegliere una donna per farne la propria sposa è dire alla signorina Tal dei Tali: “Voglio vivere con voi così come siete”. Il che significa in realtà: “Ho scelto voi per dividere la mia vita, ed ecco la sola prova che vi amo”. E vi assicuro che vi risponderà: “Tutto qui!” come diranno molti giovani che, in virtù del mito, si aspettano non so quali divini trasporti, darà prova di aver conosciuto ben poca solitudine e ben poca angoscia: ben poca solitaria angoscia».

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