What’s Going On? (Speciale America)

Vorrei approfondire un paio di episodi che hanno segnato la cronaca americana negli ultimi giorni.

Il primo riguarda un gruppo di studenti della Covington Catholic High School che il 18 gennaio era andati a Washington per la consueta Marcia per la vita anti-abortista. Mentre stavano tornando al loro pullman, i ragazzi sono stati circondati da una folla di Black Hebrew Israelites (una setta suprematista nera) che ha cominciato a ricoprirli di insulti (come “figli dell’incesto”, perché per loro i bianchi sono esseri inferiori).

A dar man forte ai neri razzisti (che se la sono presa anche con gli studenti di colore della scuola) sono accorsi i militanti di un’altra organizzazione di “nativi americani”, che hanno urlato ai giovani di “tornarsene in Europa” e hanno mandato uno dei loro rappresentati a provocare uno studente con il cappellino pro-Trump (quello con scritto “Make America Great Again”) suonandogli in faccia il famoso tamburello indiano.

Dato che grazie al contegno dei giovani “militanti per la vita” è stato evitato qualsiasi scontro, era scontato che la storia non acquisisse alcun interesse nazionale: epperò i mass media hanno deciso di estrapolare il momento del filmato in cui il “nativo” (che, ripetiamo, si era avvicinato di sua volontà al gruppo di ragazzi solo per infastidirli col tamburello), sembrava fosse stato circondato dai minacciosi “bulli di Trump”.

In tal modo l’intero sistema mediatico americano ha potuto mettere alla gogna il giovane studente col cappellino, accusandolo di “sorridere in maniera troppo irriverente” (praticamente il “delitto facciale” di cui parlava Orwell in 1984) ed elogiando al contempo l’irritante “apache” sdentato (che peraltro si è spacciato come reduce del Vietnam, nonostante sia solo un sinistrato di professione, con un corposo curriculum criminale). Per giorni il ragazzo è stato attaccato in tutti modi, i nomi dei suoi genitori e l’indirizzo della sua abitazione sono stati messi online, e la scuola stessa ha ricevuto innumerevoli minacce da gente che voleva farla saltare in aria o assaltarla con un fucile (apprezzate l’ironia: questi sono gli stessi che manifestano continuamente a favore del gun control…).

Alla fine la stampa conservatrice ha reagito nell’unico modo possibile, cioè pubblicando l’intero video dell'”incidente” disponibile sin dall’inizio: che nessuno, dalla CNN al Washington Post, si sia scomodato a guardarlo, fa sospettare dell’integrità dei professionisti d’oltreoceano. E anche di quelli nostrani, chiaramente: basti pensare che il “Corriere” ha abboccato subito all’amo con un bel paginone (corredato dal video manipolato nella versione online), ma si è poi dimenticato di riportare una qualsiasi rettifica – a differenza del New York Times, che almeno ha avuto la decenza di farlo (How We Destroy Lives Today, 21 gennaio 2019).

Nonostante lo sputtanamento totale (o forse proprio a causa di esso), alcune personalità mediatiche e politiche si sono rifiutate di scusarsi e fare un passo indietro, anzi hanno continuato a rincarare la dose in maniera così sfrontata che alla fine è dovuto intervenire direttamente il Dio Imperatore:

In Italia gli unici ad aver parlato in maniera obiettiva della vicenda sono stati “Il Secolo d’Italia” (Trump difende gli studenti cattolici, 22 gennaio 2019), il sito di Nicola Porro (S. Varanelli, Follie Usa, la fake degli indiani buoni e dei bianchi cattivi, 24 gennaio 2019),  e “Tempi”, con un pezzo che val la pena citare perché richiama anche la “questione cattolica” (L. Grotti, I “razzisti bianchi trumpiani cattolici” di Covington? La madre di tutte le fake news, 24 gennaio 2019):

«[…] Anche i cattolici si sono buttati nella mischia: la scuola cattolica di Covington, che ha annunciato per martedì la chiusura dei battenti a causa delle minacce ricevute e ha riaperto mercoledì grazie ai pattugliamenti della polizia, ha emesso un comunicato insieme alla diocesi per “condannare le azioni degli studenti […]. Questo comportamento è contrario agli insegnamenti della Chiesa cattolica sulla dignità e il rispetto della persona umana. Prenderemo le azioni appropriate, compresa l’espulsione”.
Ma non finisce qui: oltre che espellerli dalla scuola e magari metterli alla sbarra (un procuratore ha annunciato che i fatti possono costituire il reato di “assalto aggressivo e violento”), il celebre sacerdote gesuita James Martin, quello che accusa la Chiesa cattolica di discriminare e odiare le persone Lgbt, si è detto “disgustato” dalla condotta degli studenti, mettendoli alla porta addirittura della Chiesa: “Queste azioni non sono cattoliche. Mi chiedo se questi studenti capiscano pienamente che cosa sia la dignità di ogni vita umana”.
[…] Dopo che la realtà dei fatti è stata appurata, la metà degli editorialisti, dei commentatori e degli utenti di Twitter che si era scagliata contro il giovane si è scusata, altri hanno cancellato gli insulti, altri ancora hanno fatto finta di niente o sono andati a nascondersi».

In effetti il silenzio della Chiesa riguardo a questi studenti martirizzati (per ora solo mediaticamente, anche se non sembra finita qui) ha fatto quasi dimenticare che provenissero da una scuola cattolica: ma forse di questi tempi dovremmo solo accontentarci che l’attuale Pontefice non sia intervenuto contro di loro. Stendiamo quindi un velo pietoso, e passiamo alla seconda storia.

Parliamo di Roger Stone, il giornalista 66enne che ieri (venerdì 25 gennaio 2019) è stato arrestato con una spettacolare operazione dell’FBI alle sei di mattina per… crimine non pervenuto. No, sul serio, non c’è nulla su questa specie di Vittorio Feltri d’oltreoceano, se non che qualche mese fa ha cercato di contattare Julian Assange come migliaia di altri suoi colleghi.

La vicenda è resa ancora più surreale dal fatto che le telecamere della CNN un’ora prima dell’arresto fossero già piazzate davanti alla casa di Stone, pronte a riprendere ogni movenza dello squadrone di agenti bardati di tutto punto. Il network ha spacciato l’incredibile coincidenza come “istinto da reporter”, ma è difficile non sospettare che l’operazione sia stata architettata allo scopo di darle il massimo risalto possibile: un sintomo del clima da regime change che si respira in America (non solo quella del Sud).

Dopo sei ore dall’arresto Roger Stone ha ottenuto la libertà su cauzione, e come provocazione ha voluto far aspettare le decine di giornalisti appostati davanti al tribunale rilasciando una lunghissima intervista telefonica al suo amico Alex Jones (“Let them keep waiting, like the President does”), la cui piattaforma “Inforwars” è stata bannata da tutti i social media, con una manovra coordinata altrettanto inquietante. Una volta uscito, si è poi esibito impudentemente nel classico Nixonian salute (il giornalista è un grande ammiratore del Presidente repubblicano, tanto ad essersi fatto tatuare il suo volto sulla schiena):

Per una evidente ripicca di fronte al collega tanto odiato, le televisioni presenti hanno consentito che le urla scalmanate dei rappresentati (che lo accusavano di essere “russo”…) coprissero il comunicato di Stone in modo che non si sentisse nemmeno una sua parola (dunque è stato previdente a parlare prima con Jones…). A coronamento della campagna d’odio, alcuni commentatori si sono permessi di fare battute sulla sua presunta omosessualità, augurandogli di “divertirsi in prigione” (con ovvio riferimento alla piaga degli stupri nelle carceri americane), senza subire conseguenze di alcun tipo (omofobia portami via).

Alla luce del caos appena descritto, l’unica conclusione possibile da trarre per entrambe le storie è sempre quella del Grande Capo, What’s Going On?

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