“Ho paura di essere razzista” (Italia, 2018)

Una bella lettera a Stefania Rossini dall’ultimo numero de “l’Espresso” (forse comincio a capire perché da mesi non aggiornano più la rubrica online):

«Cara Rossini, oggi nel mio solito percorso in metropolitana mi sono guardata intorno con occhi nuovi. Ho osservato una trentina di persone che affollavano il mio vagone, ma soltanto tre di loro sembravano italiani. Ho cercato di intuire dall’aspetto e dall’abbigliamento l’origine degli altri: peruviani, ispano-americani, mediorientali. persone dell’Est europeo, africani, di cui un paio probabilmente nigeriani. Mi sono istintivamente allontanata da loro e mi sono subito vergognata di me stessa. Che il clima d’odio che si respira nell’aria dopo l’atroce sorte della giovane Pamela, ritrovata a pezzi in due valigie, abbia contagiato anche me? Che il presunto colpevole, un nigeriano appunto, mi porti a considerare un pericolo tutti quelli che provengono da quel disgraziato paese? Che il gesto folle di un italiano esaltato e xenofobo, che spara su un gruppo di persone solo perché li identifica come nigeriani, trovi in me un’oscura risonanza giustificatoria? Me lo chiedo mentre mi avvio a scuola, dove mi aspettano alunni preadolescenti pieni di curiosità e di domande anche sui fatti di cronaca, che conoscono benissimo dai telegiornali e da internet. Tra loro ci sono cinque bambini di altre etnie perfettamente integrati, come le loro famiglie. Mi sforzerò di essere rassicurante, spiegherò come ho già fatto in altri casi che gli uomini sono tutti uguali, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche. di condizioni personali e sociali” come indica la nostra Costituzione. E li porterò anche a ragionare se nel mondo attuale sia ancora giusto usare la parola razza. Ma non dirò loro che non sono più tanto sicura di quello che insegno, che il numero impressionante di immigrati che abitano o circolano nel mio quartiere mi fa paura, che molti rubano e molestano, che da un po’ di tempo ho paura a camminare da sola di notte perché le donne possono essere viste come prede da uomini di culture tanto diverse e arretrate. Non dirò niente e continuerò a parlare di accoglienza e convivenza. Avrò salvato la mia coscienza di insegnante. Ma chi sanerà la mia incertezza di cittadina che ha paura di essere diventata razzista?
Elena F.

Cara Elena, la sua lettera tocca verità nascoste, difficili da accettare e anche da pensare. Lei ha avuto il coraggio di raccontare il conflitto che, in misura diversa per sensibilità e idealità, ci troviamo tutti ad affrontare. Alcuni con stupore e rammarico, altri con baldanza irresponsabile che arriva a rivendicare le ragioni della xenofobia strisciante. Nell’assenza dl una politica che sappia fare da guida, mettere a confronto il mondo esterno in preda ai caos con il mondo interno che fatica e si interroga, è forse l’unica ricetta per restare fedeli a se stessi».

Anche a me capita sempre più spesso di sentire questo genere di discorsi dagli ottimati, la “parte migliore del paese”, e la cosa più che preoccuparmi, mi diverte. Non si tratta tuttavia di Schadenfreude, perché sono coinvolto dal fenomeno sia come italiano sia come abitante di un quartiere adiacente a uno di questi “centri di accoglienza” ormai totalmente fuori controllo (è proprio il caso di dire che Hic sunt leones, nonostante i leoni fanno la cortesia di sbranarti e basta, senza inutili sadismi di contorno).

L’aspetto spassoso, come dicevo sono i contorcimenti intellettuali, morali e persino spirituali di chi proprio non riesce a fermarsi un attimo e respirare. Nessuno degli auto-proclamatisi antirazzisti avrà mai il coraggio di ammettere che tutti gli stupri, gli assassini e (possiamo finalmente aggiungere) gli smembramenti, sono un giusto prezzo da pagare per il conseguimento della Gerusalemme terrena multiculturale. È un mito politico il più accecante degli ultimi tempi (o dei tempi ultimi), che impedisce di apprezzare la ragionevolezza del particulare quando non si discute più di massimi sistemi o di sòle dell’avvenire, ma della propria famiglia, casa, quartiere.

Prima ci si rende conto di questo, e meglio è per tutti: altrimenti la continua rimozione del problema creerà una tensione che esploderà in primo luogo proprio nei “migliori”, quelli che hanno voluto prepotentemente negare la realtà fino a che non gli è finita sul grugno, e in quel momento la questione del razzismo non si potrà più affrontare coi toni delicati e introspettivi di una conversazione domenicale.

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