La crisi catalana come crisi della mediazione

Mi conforta non essere il solo a credere che la crisi catalana sia un sintomo della crisi della mediazione che stiamo attraversando. Il giornalista russo Aleksandr Khaldej, in un articolo per “Zavtra” (legato al partito Rodina) ha espresso infatti alcune considerazioni che non posso fare a meno di condividere:

«A questo punto, solo un intervento di intermediazione può fermare una guerra civile, una catastrofe nel cuore dell’Europa. Eppure i mediatori restano in silenzio […]. Non è un caso che durante i rapimenti in primo luogo intervenga sempre un negoziatore, e solo in caso di fallimento i cecchini. Tuttavia, se il negoziatore riesce a far bene il suo lavoro, non è necessario alcun cecchino. In questa occasione però a nessuno è stato dato l’incarico di negoziare» (Il vicolo cieco catalano, 28 ottobre 2017).

L’opinionista mi trova meno d’accordo quando si mette a magnificare il genio mediatore di Putin (col quale la corrente politica a cui si rifà ha un rapporto di odio-amore), paragonandolo addirittura alla Regina Elisabetta per esser riuscito ad ammansire i separatisti ceceni così come la corona britannica ha fatto con quelli scozzesi. Ciò nonostante, è difficile non convenire col buon Khaldej nel momento in cui osserva che «la volontà di forzare la mano pone Madrid nella stessa pericolosa posizione di Kiev nei confronti del Donbass, con la differenza che l’Europa non darà carta bianca ai massacri dei catalani come invece ha fatto con quelli dei russi del Donbass» (touché).

La dicotomia delineata dal giornalista è semplice: da una parte, ci sono gli Eltsin, i Poroshenko e i Rajoy, accecati dall’ambizione e incapaci di trovare soluzioni alternativa alla forza bruta; dall’altra invece c’è Sua Eccellenza Vladimir Putin, che con la ragionevolezza e il tatto che lo contraddistinguono è in grado di dirama le questioni più spinose, dal Caucaso all’Ucraina.

Sì, beh, come direbbe un’altra Eccellenza, la situazione era un po’ più complessa: però anche qui va riconosciuto che, se fosse stata solo una questione di forza bruta, a quest’ora Putin non avrebbe alcuna sponda nel Caucaso settentrionale; al contrario oggi la Cecenia, da epicentro della jihadizzazione della Russia, è diventata il perno della “russificazione” dell’islam politico.

Infine, Khaldej solleva, in modo un po’ pittoresco, un punto cruciale:

Credo che anche chi non comprende una parola di russo abbia inteso il messaggio (peraltro non uno degli slogan citati appartiene all’indipendentismo catalano, ma poco importa). Ormai è un “muro contro muro”, ed è arduo sperare che una delle due parti ceda, nonostante entrambi i contendenti sembrino puntare proprio allo sfinimento: Rajoy (che a onor del vero è stato molto più “moderato” di Poroshenko – e della Regina Elisabetta, che c’era già ai tempi della Bloody Sunday) continuerà a rispondere alle dichiarazioni d’indipendenza con la Costituzione del 1978 alla mano. Ma per quanto si potrà andare avanti così, prima che la corda si spezzi definitivamente?

Lasciando da parte Rajoy e Puidgemont, Kadyrov e Putin, Papa Francesco e Donald Trump, la verità  è che la restrizione degli spazi designati alla composizione dei conflitti è da addebitare quasi esclusivamente all’Unione Europea. Per farla breve: se lo scopo è ancora quello di creare gli Stati Uniti d’Europa, allora esistono sostanzialmente due strade per arrivarci.

La più “sbrigativa” contempla la sostituzione degli attuali popoli europei con una stirpe più omogenea, senza radici né storia né cultura e la cui lingua madre dovrà essere il globish (all’apparenza sembra che sia questo il percorso scelto dagli eurocrati).

L’altro sentiero invece, a mio parere più ragionevole (partendo sempre dalla premessa che costituire una super-nazione europea sia folle – ma anche nella follia deve esserci del metodo), è quella di dissolvere le patrie esistenti e sostituirle con repubbliche modellate sulle regioni storiche, magari etnicamente più omogenee, con un proprio esercito, una lingua, una moneta e tutti gli stendardi del caso (in modo da non scontentare nessuno). L’unico requisito comune di tali micro-nazioni dovrà essere la dimensione esigua, in modo che ognuna di esse sia obbligata a dipendere da una confederazione per imporsi a livello internazionale.

Non dico che sia una cosa giusta né auspicabile, ma tale modello mi pare più “sostenibile” rispetto a quelli utopistici finora prospettati; il fatto che questa Unione, al di là dei i grandi discorsi, non voglia neanche prenderlo in considerazione, rifiutando a propri di esercitare il ruolo di mediazione che ora le compete, è quantomeno sospetto. Che ormai il percorso obbligato sia quello di diventare un doppione sfigato dell’Unione Sovietica? In tal caso temo che, quando “cadranno i muri” (quelli che non abbiamo voluto costruire), delle nazioni che hanno deciso di vendersi l’anima per diventare “più europee” non rimarrà pietra su pietra.

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