“La pronuncia erasmiana non esiste!”

Questi commenti, che seguono la struggente interpretazione di Savina Yannatou del proemio dell’Odissea, mi ricordano una mia discussione-tipo con chiunque abbia studiato il greco antico in Italia. Come si può facilmente intuire, quello in verde è l’italiano mentre tutti gli altri sono greci (mi è sembrato giusto censurare i nomi, non so perché…). Il più agguerrito degli achei è quello in azzurro, che se la prende col nostro compatriota, reo di sostenere una pronuncia (l’erasmiana) a suo parere immaginaria, inventata da “un prete olandese che non conosce il greco”.

Sono consapevole di venir meno alla carità di patria, però non riesco a parteggiare per la posizione italiana, per un motivo molto semplice: noi rimproveriamo ai greci lo stesso atteggiamento che teniamo nei confronti dell’insegnamento del latino.

Per quale motivo, infatti, noi seguiamo la lectio ecclesiastica se non perché la sentiamo come “nostra”? Diamo a Kaesar quel che è di Kaesar: non puoi andare da un greco a dirgli che “solo voi al mondo pronunciate così” e poi non accettare la ramanzina del tedesco (ironia della sorte, lo stesso fenomeno si verifica anche in campo politico ed economico).

Mettiamoci allora nei panni di un greco moderno che dovrebbe impastarsi la bocca di etacismi, e immaginiamo quale incubo sarebbe per un non-ariano leggere il latino come “ce lo chiede l’Europa”.

Premettendo che della questione conosco solo lo stretto necessario, mi stupisce che nei dibattiti (soprattutto quelli virtuali), come argomento decisivo per avvalorare la restituta in greco (buona) e in latino (cattiva), vengano portati i versi degli animali. La dimostrazione classica degli erasmiani è infatti il belato della pecora, βῆ βῆ, che si legge [bɛ:] e non [vi]; mentre i sostenitori della restituta latina citano il “Messo Cicirro” di Orazio, che essendo un galletto dovrebbe essere pronunciato ancora come impone l’onomatopea, ovvero Kikirrus… (in realtà i “cicirri” sarebbero i ceci, ma non importa).

Ora, senza addentrarmi nello specifico, rilevo soltanto due cose (tra esse collegate): in primis, l’idea che esista una “base naturale” della pronuncia e che quindi sub specie aeternitatis le pecore facciano “be” e i galli “chicchirichì”, quando invece sappiamo che anche le onomatopee sono costruzioni socio-culturali e non dati oggettivi (ogni parlante percepisce il “pecorese” e il “gallese” secondo i criteri imposti dalla propria madrelingua).

Inoltre (seconda considerazione) questa idea di autenticitàgenuinitàoriginarietà, mascherata col pretesto della “scientificità”, è poco scientifica (e pedagogica) e molto filosofica (e ideologica): la “smania dell’origine” è un fenomeno recente, dovuto all’insostenibilità del relativismo anche in campo filologico. Ecco perché, per parafrasare un noto motto, facciamo “gli erasmiani col greco degli altri”, mentre facciamo i gesuiti col “nostro” latino (del resto proprio la Societas Iesu ha forgiato la nostra pronuncia).

Perciò mi sembra vi sia qualche argomento, se non scientifico almeno storico-culturale (qualsiasi cosa ciò significhi), per difendere la mia pronuncia itacistica contro quelli che puntualmente mi deridono. Anche perché, quando “finalmente” riusciranno a eliminare il greco antico dalle scuole italiane, la pronuncia erasmiana scomparirà in meno di una generazione, perché la “specializzazione” comporterà (grecisti volenti o nolenti) una sottomissione all’iniquo Reuchlin.

È ingiusto, lo so, ma anche aver ridotto lo studio del greco a puro “esercizio mentale” (una cosa che “serve a capire meglio la matematica”), oppure a pretesto per slanci identitari degli ex-studenti del classico (era proprio il caso di far diventare la Marcolongo un bestseller?), ha contribuito al maramaldeggiare degli “efficientisti” su una lingua già morta.

Ma chi conserverà ancora il greco, quando noi studieremo solo i mitocondri? Sempre loro, i poeti bizantini, i nostri maestri segreti che ritroveremo ancora tra le rovine.

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